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Invito alla lettura R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia

«Ciò che la Fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta».
La potenza dell’immagine fotografica è racchiusa in questo gioco di presenza e assenza: sappiamo che ciascun evento è irripetibile, eppure ci illudiamo di poterlo fissare in eterno nella cornice della rappresentazione. 
Da queste riflessioni prende le mosse il saggio di Roland Barthes La camera chiara, una nota sulla fotografia che il celebre semiologo scrive pochi mesi prima di morire e che risulta un testo denso, in
grado di parlare sia a profani, sia a un pubblico di esperti dell’arte di Nadar. Ciò è dovuto alla scelta dell’autore di staccarsi dal «linguaggio critico» per privilegiare la prospettiva autobiografica.
Nella prima parte, Barthes si inventa una fenomenologia «vaga, disinvolta, addirittura cinica» che gli permette di muoversi a metà tra scienza e soggettività. Egli indaga la fotografia non come tema, bensì come «ferita», che si inscrive nella sfera dell’interiorità e dei sentimenti. Questa la trovata: accentuare il fatto che l’immagine fotografica – se riuscita – è violenta e colpisce, presenta qualcosa che scalfisce l’attenzione superficiale. Si tratta del punctum, particolare che letteralmente “punge” lo spettatore e si accompagna allo studium, sguardo razionale rivolto all’immagine quale testimone di un periodo storico. Se lo studium è un’aria di famiglia che pervade gli oggetti e ci informa sul punto di vista dell’autore, il punctum è un aspetto parziale che da questo sfondo si staglia e rimanda alla sensibilità dello spettatore, il quale ne è turbato senza saper definire perché. È messo a tema anche il rapporto tra la fotografia e il tempo. Ha senso, infatti, per Barthes che lo stesso secolo abbia inventato la storia e la fotografia, entrambi tentativi di fermare in una rappresentazione dotata di senso «ciò che è stato». 
La seconda parte del saggio dà spazio al ricordo della madre dell’autore, quasi un omaggio alla Recherche proustiana. Per quanto scavi tra vecchie istantanee, in nessuna di esse riconosce l’unicità del volto amato. Tranne forse in una che ritrae la madre da bambina in un giardino d’inverno, immagine il cui punctum è la dolcezza. La fotografia è investita di un significato ulteriore e diventa un complemento del ricordo. Questo surplus di senso restituisce dignità al qui e ora cristallizzato dal fotografo, istante altrimenti identico a mille altri. Comprendiamo così il titolo. Camera «chiara», o meglio «lucida», è l’apparecchio che prima della macchina fotografica permetteva di disegnare un oggetto attraverso un prisma, con un occhio al modello e uno alla carta. Chiara è la fotografia in quanto pura esteriorità, di per sé piatta e immobile. Donare interiorità all’immagine è dunque una conquista, che si raggiunge facendola dialogare col tempo: solo passando attraverso la dimensione della memoria, essa può trovare senso e profondità.

Contributo di Paola Pazienti

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